Umberto Marocchino nasce a Torino nel 1947. A sedici anni scatta la prima fotografia e da quel momento qualcosa cambia: la realtà non è più solo da vivere, ma da osservare, da fermare, da custodire. La fotografia diventa il suo modo di abitare il mondo: una compagna silenziosa, una lente attraverso cui tradurre lo sguardo in memoria. Non un semplice gesto tecnico, ma un atto di attenzione, di ascolto, di presenza. Da allora, ogni inquadratura è un frammento di tempo che resiste, ogni scatto una dichiarazione d’amore alla luce, alle forme, alle cose che sembrano invisibili.
Non ha mai imparato i nomi delle vie, né quelli delle piazze. Ciò che gli restava impresso erano le curve dei tetti, le ombre oblique sui muri, le geometrie improvvise che una città offre solo a chi la guarda davvero. Per lui, la memoria non ha voce: ha forma, luce, profondità.
È forse da qui che nasce il suo sguardo: silenzioso come una passeggiata all’alba, paziente come la luce d’inverno, preciso come un respiro trattenuto prima di scattare.
Chimico ambientale di formazione, si laurea in Scienze Politiche con una tesi dedicata all’ecologia, a conferma di uno sguardo da sempre rivolto a ciò che vive e cambia.
Il suo rapporto con il colore è singolare, intimo: una deuteroanomalia gli impedisce di distinguere il verde. Ma ciò che per molti sarebbe un limite, per lui diventa possibilità. Perché dove l’occhio si ferma, la mente indaga e la luce si fa indizio.
Nasce così il suo interesse per la spettrofotometria: una disciplina che non chiede di “vedere” il colore, ma di ascoltarlo con strumenti che lo traducono in lunghezze d’onda, numeri, intensità.
Il colore non più interpretato, ma misurato. Non più inafferrabile, ma raccontato.
Ha viaggiato a lungo, per lavoro, ma - forse - anche per inquietudine, per necessità interiore.
Soprattutto in Italia, terra che conosce in tutte le stagioni. "Andare, andare, non importa dove", scriveva Kerouac. Per lui ogni viaggio è stato questo: un modo per perdersi e ritrovarsi, per fermare ciò che altrimenti scivolerebbe via.
Nel progetto “La Porta 8”, questa tensione verso ciò che cambia e ciò che resta prende forma visiva. La porta diventa soglia, scarto, promessa: un’immagine poetica e concreta dell’Economia Circolare, campo in cui ha lavorato per anni, dando nuova vita a ciò che altri scartavano.
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Non ha mai seguito corsi, né cercato scorciatoie. Ha imparato guardando: le opere, le mostre, i gesti degli artisti che sapevano parlare senza parole. È autodidatta, sì, ma con la disciplina di chi ascolta a lungo prima di dire qualcosa. La sua fotografia è fatta di tempo che matura, di pazienza che sedimenta, di uno sguardo che non ha fretta ma lascia che le immagini emergano lentamente.
I suoi primi scatti nascono da un dono: una Leica III regalata dal padre, una reliquia comprata a Roma negli anni ’30, quando ancora faceva l’aiuto fotografo. Poi l’umidità delle camere oscure lo costrinse a lasciare quel mondo, ma l’amore per l’immagine rimase. E passò di mano. Anche dal lato materno, la memoria visiva era già scritta: un nonno panettiere, reso sordo da una bomba della Prima Guerra Mondiale. Fu lui, nei pomeriggi torinesi degli anni ’60, a guidarlo tra mostre, spettacoli e le prime scintille dell’Arte Povera. Un’educazione fatta di sguardi e intuizioni.
Torino era un laboratorio vivo e lui ne era parte: partecipe, curioso e instancabile.
È in questa stratificazione di sguardi, esperienze e materie che si forma il suo approccio fotografico. Con la naturalezza e la pazienza di chi ha sempre lavorato con le mani, si definisce oggi con consapevole semplicità “un artigiano dell’immagine”, più che un artista della fotografia.